Ho ritrovato un acquerello che Edvige mi aveva regalato moltissimi anni fa. Anzi, non l’ho ritrovato, e lei non me lo aveva proprio regalato. Ho cercato quell’acquerello dopo averci pensato molti giorni, e l’ho ritrovato dove sapevo che era sempre stato. Da quando, in un tempo lontanissimo, le avevo detto che lo avrei custodito, certa che un giorno mi sarebbe servito di andarlo a riprendere per restituirglielo. Così ho riaperto la vecchia cartella che ho sempre protetta in luoghi sicuri durante tutti i traslochi della mia anima. Ed era lì, come l’avevo lasciato.
Oggi penso di dover restituire quell’acquerello ad Edvige in queste righe, per trovare non il punto d’inizio della sua carriera artistica, ma una chiave di lettura. Quella che rende chiara la sua vocazione come un fatto connaturato al suo modo d’essere, ed al tempo stesso come una strada che si è dovuta faticosamente aprire attraverso gli intrighi della sua esistenza.
In quell’acquerello Edvige ha infatti ritratto se stessa nei panni di una marionetta sottile che indossa un abito curiosamente incerto tra quello di un clown e di un menestrello medioevale. I colori, delicatissimi, affiorano per meno di metà sul corpo di questa marionetta misteriosa, e il segno sottile della matita rimane da solo, indifeso e scoperto sul foglio di carta, a completare per intero la figura di Edvige, che si fa così riconoscere in bilico tra queste sue due metà, mentre danza, immobile, una danza d’armonia.
Per metà se stessa e per metà figura. Elegante come la rosa disegnata in primo piano e, come quella, sospesa in bilico sullo scorcio di una superficie sottile, azzurra come l’acqua trasparente nella quale si cela la profondità di un lago, e senza spessore come la sostanza colorata che la definisce.
Quelle due metà di Edvige sono quelle che ora ho rivisto nella sua produzione artistica degli ultimi venti anni, fatta di opere sapientissime a livello formale e ricche di sentimento. Opere poetiche e tragiche al tempo stesso, che palesano e trasfigurano il contenuto della sua esistenza con la stessa grazia di quell’acquerello. Sempre in bilico tra casualità e controllo compositivo. Tra memoria autobiografica e riflessione speculativa. Opere create, con grande impegno, ma sempre sotto la spinta dell’urgenza della gioia di comunicare, che dimostrano come la sua produzione artistica sia in realtà un discorso ininterrotto, con il quale ha continuamente parlato del male d’esistere per trasformarlo nella melodia di un canto. Dell’esistere di tutte la esistenze, non solo della sua. Con il coraggio di un’artista che vuole intrecciare la sua vita al senso profondo di quella degli altri, sapendo di non potersi porre come modello. Opere filosofiche, ma al tempo stesso ingenue, intellettualisticamente raffinate e insieme spontanee. Fatte di oggetti senza valore e del gesto prezioso di chi, raccogliendoli, ha cercato il valore dei suoi giorni, scoprendovi quello dei giorni di tutti. O almeno quello che è nei giorni che tutti buttano. Del tempo perso dei nostri giorni, quello rimasto fuori dalla vita programmata che deve impiegare il tempo per non scoprirvi l’assenza di valore.
Questa materia della vita dimenticata che entra in frammenti nei suoi lavori, a partire dal finire degli anni 90, non solo non appesantisce, infatti, la trasparenza di quel suo antico autoritratto all’acquerello, ma chiarisce appunto la capacità originalissima del procedere di questa artista, che sa trasformare ogni materia in pensiero. Senza mai smaterializzare gli oggetti che usa in estetismi manierati, né tantomeno stravolgendoli in effetti espressionistici, ma componendoli nell’ordine della pittura in modo tale che essa si faccia spazio metafisico e colore spirituale quel tanto che serve per custodire la loro forma al riparo dal tempo. La quale diviene quindi significato dell’opera senza smettere di significare se stessa, rispecchiando nelle infinite possibilità combinatorie del disporsi delle cose in ogni singola realizzazione, la regola eterna del caso, che può riflettere la necessaria casualità della vita solo attraverso lo specchio dell’arte. A patto, però, che in esso l’artista non si guardi per dimenticare la sua vita ma per trovare se stesso.
Le due serie che in modo più palese evidenziano il doppio armonico di questa pittura materica e concettuale sono quelle delle”Spazzature” e degli “Acciacchi Vari” .
Nelle spazzature la doppia valenza, evidente nell’aspetto formale di ogni singola realizzazione, si trasforma progressivamente attraverso la metamorfosi che la successione di opere subisce negli gli anni, fino a quando gli oggetti utilizzati, che prima erano disposti accuratamente in tasselli ordinati nello spazio della superficie dei quadri, finiscono per perdere la loro riconoscibilità. Trasformandosi così in forme rese meno identificabili dal loro frammentari o reimpiego nell’opera. All’interno della quale ogni cosa diviene un’enigmatica presenza, che intreccia rapporti formali con quelle circostanti senza l’aiuto dell’ armonia tonale stabilita con la tinta neutra del fondo, come avveniva nei primi assemblaggi. Tanto che queste nuove cose privilegiano più caratteristiche plastiche che pittoriche, mostrando la forma nitida del loro volume come quella di sculture forgiate in una materia sottile e dura, che sembra racchiudere al suo interno il segreto del pensiero che le ha create. In modo simile alla colata del bronzo che imprigiona la scultura originale della quale ha preso la forma.
Per cui vien da pensare che le semplici cose raccolte da Edvige per strada, con il gesto ingenuo e sapiente di un bambino o di un artista come Schwitters o Rauschenberg, siano diventate, con il tempo, la corazza estetica nella quale lei ha saputo rinchiudere un sentimento troppo violento per essere mostrato direttamente. Diverso rispetto alla sensibilità poetica dei primi lavori, con la quale poteva comporre le cose lasciando che esse si mostrassero nella loro forma riconoscibile, per farle diventare bellezza attraverso i rapporti cromatici che sul supporto le trasformavano in pittura. Un sentimento indicibile quest’ultimo, che può essere solo scolpito nella rigidità di cose lacerate in brandelli dorati, le quali divengono con il loro tragico splendore, capaci di trasfigurare i frammenti nei quali sono state ridotte nella resurrezione di un nuovo corpo formale. Accanto al quale nemmeno la presenza di un bottone può essere riconosciuta come quella di un oggetto comune .
Apparentemente più semplice è invece l’ordine compositivo degli “ ACCIACCHI VARI”, ripetuti in più esemplari di varie dimensioni, nei quali la disposizione dei tappi cambia all’interno di un’identica partizione spaziale, che li mette in relazione in modo diverso con la medesima scritta “acciacchi vari”, dalla quale le opere prendono il titolo. Tanto che, a differenza delle spazzature, l’identico riproporsi degli elementi costitutivi di questi lavori trasforma il loro reiterarsi compositivo in qualcosa di simile al ripetersi di strofe poetiche tratte da uno stesso testo, e recitate nella mente in momenti diversi della vita
Il più evidente valore concettuale di tali opere rende inoltre inevitabile l’assimilarne il significato a quello di una ricerca dell’interazione tra immagine e parola, provocata dal loro confluire all’interno di una griglia compositiva che determina il “senso” dell’opera nel rimando delle immagini mentali generate dalla percezione dei tappi, e dal ripetersi della scritta stampata che li racchiude.
Gli acciacchi dei tappi acciaccati sono infatti non metafora di una condizione esistenziale, ma scoperta di una qualità dell’esistenza. Fatta pure del dolore provocato dagli acciacchi, ma anche dalla capacità di sentire questo dolore come dato fondante della vita nel suo svolgersi temporale
Per cui il consumo deformante che i tappi hanno subito li rende belli come sono belli i segni che il tempo lascia nel nostro corpo e nella nostra anima. E l’ordine perfetto nel quale si compongono si fa logos nel quale anche il più mutilante dei dolori stempera la sofferenza che produce nell’accettazione spirituale della sua inspiegabile necessità.
Sia le spazzature che gli acciacchi vari fanno quindi confluire nell’ambito dell’assetto formale un’emozione che cerca di farsi trasparente e leggera come il pensiero. Producendo il paradosso di rendere senza peso come l’aria le cose del mondo e pesante come una zavorra il pensiero. In modo tale che intorno ad esso rimangono ancorati i turbamenti inevitabili di un animo sensibile come quello di quest’artista, la quale riesce nelle sue opere a sdrammatizzare l’inevitabile accadere che tutti noi, come ogni cosa del mondo, dobbiamo patire. Con un’ironia che stempera la tragedia nella bellezza.
Perchè nulla in questo pluridecennale lavoro di Edvige sfugge alla bellezza. Nè i mozziconi di sigarette con i quali sta costruendo un paravento dietro cui sarà certo possibile far diradare il fumo effimero dell’esistenza, né il teschio scarnificato di un bue che risplende di un colore raggiante, nel quale anche la morte acquista lo spessore di un’esperienza estetica rigenerante. E nulla tra le cose che lei raccoglie nel suo studio è superflua. Nemmeno quelle che non hanno trovato una collocazione in qualche opera: visto che tutto nel suo studio si tramuta in arte in virtù della sua persona. Anche quello che lei non ha notato. Quello che ha già fatto, ma incertezze e dubbi non le fanno vedere. Ma che salta agli occhi di chiunque visiti questo luogo incantato. Dove arte e vita si incontrano nella quiete di una riflessione interiore che sembra diffondersi nella luce della natura solitaria che lo circonda. Fra le colline e gli alberi. Nel chiarore cristallino del giorno e nei toni caldi del pomeriggio. Nello spazio che ogni visitatore non può che riconoscere come lo spazio di una sua pace ritrovata oltre ogni turbamento, attraverso la magia di un’arte che, trasformando l’artificio in incantesimo, gli fa sentire davvero il silenzio di quel luogo come la voce della sua anima.

Licia Sdruscia